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Il Klim anatolico Stampa E-mail

 

di Alessandra Doratti

Per molti anni si è creduto che i kilim anatolici fossero una sottospecie dei tappeti annodati, insomma tappeti più comuni, certamente inferiori sul piano estetico. I kilim invece, opere ragguardevolissime per spessore simbolico e culturale, si differenziano dai tappeti "normali" per quantità di caratteristiche sostanziali: anzitutto sono tessuti con la tecnica dell'arazzo; in secondo luogo perché le iconografie sono molto particolari, con ascendenze nelle tradizioni di ciascuna tribù produttrice.

Infine, kilim autentici possono essere definiti soltanto quelli anatolici, tessuti a strisce verticali che vengono poi cucite tra loro (al contrario dei kilim caucasici, che sono sempre tessuti in un pezzo unico, e che sono chiamati "palas", e dei kilim persiani, anch'essi tessuti in un pezzo unico, chiamati "fars").

L'origine dei tappeti tessuti si perde nella notte dei tempi: sono stati trovati alcuni affreschi che li rappresentano, negli scavi archeologici di Catal Hükük, in Anatolia, databili addirittura tra il 6350 e il 5400 avanti Cristo. L'importanza di questi ritrovamenti è stata in un primo tempo offuscata dall'eccezionalità della struttura complessiva portata alla luce: uno dei più antichi esempi di civiltà avanzata, intendendo con ciò un vasto nucleo umano (Catal Hükük arrivò ad avere cinquemila abitanti) basato su un'economia differenziata, con classi sociali ben distinte e strutturate sulla divisione del lavoro, e con un potere statale legittimato ideologicamente.

Proprio verso il tramonto della civiltà anatolica del neolitico, questa "età dell'oro", si cominciò a usare il kilim in sostituzione delle pitture murali, assorbendo quindi un patrimonio di simbologie che si è tramandato fino ai giorni nostri. L'integrità di questi contenuti, culturali, cromatici e formali, specifici di ogni tribù, a volte assai diversi gli uni dagli altri, è stata garantita attraverso quattrocento generazioni circa di tessitrici: essi costituiscono infatti importantissimi elementi di identità di ogni particolare gruppo e, quindi, di distinzione rispetto ai gruppi estranei.

Nel corso dei secoli l'arte della tessitura è rimasta affidata esclusivamente alle donne, specialmente alle più anziane, privilegiate all'interno della famiglia perché potevano disinteressarsi dei comuni lavori domestici, affidati invece alle figlie e alle nuore, le quali, a loro volta, apprendevano di mano in mano le tecniche e le iconografie dei kilim e si preparavano a dar vita in questo modo a raffigurazioni assai ripetitive, somiglianti a quelle di sempre, e corrispondenti a un'ideologia di comportamento particolarmente conservatrice adeguata alle primitive necessità di sopravvivenza. Queste antiche tecniche di lavorazione, rimaste intatte fino alla fine del secolo XIX, sono state documentate da due studiosi, Belkis Balpinar e Udo Hirsch, che si sono dedicati alle modalità di esecuzione dei kilim.

La tinteggiatura utilizzava esclusivamente coloranti naturali, di origine per lo più vegetale. Il blu, ad esempio, veniva ricavato dalla pianta dell'indaco, mentre le sfumature del rosso derivavano dalla robbia. Numerosissimi sono i motivi decorativi che possono essere catalogati come tipici, tanto che per ora non è possibile elencarli per intero; limitati sono, invece, i "motivi di base", cioè gli elementi archetipici, come la losanga, simbolo della fertilità maschile e legata quindi all'iconografia del pesce, tipica di tutta l'area indoeuropea e trapassata nel cristianesimo come rappresentazione di Gesù Cristo.

Oltre alla losanga, semplice o dentellata, che si ritrova nel patrimonio culturale di molti gruppi, un altro motivo fondamentale è il cosiddetto "mani sui fianchi" o "elibelinde", il cui significato è legato ad alcune più tarde divinità dell'abbondanza e della fertilità, come la frigia Cibele, la greca Artemide, l'italica Diana, eccetera. Importante anche il motivo "gökköl", il motivo "corna di montone", probabilmente legato ad un antichissimo culto degli animali praticato dai popoli cacciatori. Con il passare del tempo, i motivi di base sono stati elaborati e hanno dato origine a raffigurazioni tipiche e complesse; le grandi, primitive losanghe, ad esempio, sono state trasformate presso il gruppo Hotami, residente a Karapinar, in grandi medaglioni esagonali, arricchiti all'interno da altre losanghe e stagliati su un fondo bianco, anch'esso tradizionale per questa tribù.

I gruppi sedentari Aydinli, sparsi per l'Anatolia occidentale, adottano invece esagoni sovrapposti, caratterizzati da decorazioni minutissime e, soprattutto, dal motivo "gökköl", tessuto di preferenza in azzurro e per questo detto anche "braccia di cielo". Nelle tribù residenti presso l'antica Pessinus, vicino all'odierna Sivrihisar, il motivo "elibelinde" è predominante: lo si trova tracciato in tutti i colori, spesso sul fondo grigio-bianco; esso è strettamente legato, in questa regione, a un culto particolare della Dea Madre (la Magna Mater latina), dispensatrice di fecondità alle donne, agli animali e a tutta la natura.

La recente attribuzione dei kilim ai gruppi tribali e non, più genericamente, alle località, è merito di un profondo lavoro di ricerca che è stato fatto esaminando cioè i kilim depositati nelle moschee di tutta l'Anatolia, da secoli collocati a strati sovrapposti, dai più antichi ai più moderni. Lo studio di questo materiale ancora esistente nelle moschee si è rivelato assolutamente fondamentale anche perché la restante produzione, quella cioè destinata all'uso privato e familiare, è andata in gran parte distrutta: in altre parole si è progressivamente logorata ed è stata sostituita da kilim di più recente fattura.

Oggi sopravvivono ben pochi esemplari del XVIII secolo: la maggioranza dei kilim esistenti è databile infatti entro il secolo XIX. Nei primi anni del Novecento, purtroppo, la diffusione dell'anilina e dei coloranti sintetici e il costituirsi di un mercato, rovinarono la produzione: le tessitrici presero a lavorare non più per se stesse, ma per la vendita. I kilim cominciarono a perdere, pian piano, genuinità e freschezza. Va anche aggiunto che la maggiore o minore richiesta di certe tipologie da parte dello stesso mercato ha ulteriormente compromesso la qualità dei kilim: per far fronte alle crescenti richieste, alcune tribù hanno adottato dei motivi del tutto estranei alla loro cultura, allo scopo di smerciare più facilmente il prodotto.

Da tutto questo dipende, quindi, la relativa rarità dei kilim autentici, incomparabilmente più delicati e preziosi di quelli confezionati in questo secolo in modo affrettato e grossolano. E forse in ciò risiede anche una ragione del loro fascino: la certezza che ci troviamo davanti a testimonianze di una civiltà scomparsa per sempre, di cui forse non è nemmeno più possibile ricostruire del tutto la storia.

 
I Tappeti di guerra Afghani Stampa E-mail

 

per gentile concessione di tappetidiguerra.com

Ben noti anche in occidente, esaminati in articoli divulgativi e saggi specialistici che ormai formano una vasta bibliografia, i tappeti di guerra più interessanti sono rari nei negozi e hanno invece goduto di notevole fortuna in musei e gallerie d’arte contemporanea, grazie all’originalità e alla tensione innovativa delle rappresentazioni e del linguaggio, come fossero opere d’arte capaci di toccare le corde più esigenti della visualità contemporanea. I più pregiati sono da tempo oggetti da collezione e fanno parte di raccolte pubbliche e private.

Ma la loro origine è in parte ancora misteriosa e, per alcuni esperti, gli esemplari più vecchi precederebbero persino la sequenza interminabile delle guerre afgane recenti, iniziata con l’intervento sovietico (1979-1988) e la resistenza dei mujihadin, proseguita con gli scontri tra fazioni di mujihadin (1992-1995), con la costituzione dell’Emirato talebano (1996-2001) e in corso sino ad oggi dopo la caduta dei talebani, l’intervento americano e la resistenza di nuove compagini di mujihadin (post 2001): “Sono stati necessari altri ritrovamenti per risalire da quel tappeto di guerra che mi aveva sorpreso nella Peshawar della metà degli ’80, ad una vera e propria tradizione modernista che affonda nei decenni precedenti e di cui di tanto in tanto affiorano esemplari sorprendenti come un tappeto con le Geishe e gli aeroplani. Nonostante ben sapessi che nemmeno le più audaci rivoluzioni formali dell’avanguardia fossero nate dal nulla per semplice cortocircuito creativo o sotto la meccanica pressione di eventi epocali, anch’io ero arrivato a ritenere che i tappeti di guerra, confortati in questo dal disastro in corso, fossero il portato di un atto collettivo la cui origine, pur recente (allora recentissima), era già annegata nel macello in opera. Ci volle più tempo e soprattutto la scoperta dei “Tappeti con il mondo” eppoi di altri manufatti non meno sorprendenti per convincermi che i Tappeti di guerra erano soltanto l’atto più recente, e in qualche modo finanche “decadente”, di una produzione modernista che li precedeva di molti anni. Le armi moderne, avevo notato, figuravano in molti esemplari di soggetto vario che plausibilmente precedevano l’occupazione sovietica e lo scoppio della guerra” (Enrico Mascelloni, L’incubo del modernismo, di prossima pubblicazione per i tipi SKIRA ed.).

Prima della guerra, anche nella produzione tessile e nella sua stessa organizzazione vigeva il ricorrente conflitto tra tradizione e cambiamento. Basti pensare che a pochi anni dallo spiazzamento nei campi profughi che segue l’invasione sovietica, erano ancora attive vere e proprie gilde medioevali, come quella di Tash Kurgan documentata negli anni ’60 da due studiosi svizzeri (cfr. Pierre e Micheline Centlivres, Un bazar d’Asie Centrale – Forme et Organization du Bazar de Tash Kurgan).

Ma qualche anno prima della guerra guadagnava al contempo spazio “un processo che conduceva prima alla scomparsa di un manufatto tradizionale, eppoi alla ricomparsa di un tappeto completamente diverso e di qualità più bassa. Il processo sembra avere persino una data d’inizio, il 1971, quando il primo “beluchi type” appare nei bazar, vidimando un cambiamento evidentemente in corso da tempo” (cfr. R.D. Parsons The carpets of Afghanistan).

I beluchi, stanziati nel sud ovest dell’Afghanistan (oltrechè in Pakistan e Iran), sono ritenuti i primi e principali realizzatori di tappeti di guerra. Con “beluchi type” s’intende una produzione di tappeti in stile beluchi ma realizzati da altre etnie come i Taimani, gli Aymaq e persino i Pashtuni trasferitisi da un secolo nelle regioni di nord-ovest. La maggior parte dei tappeti di guerra proviene infatti dalle aree occidentali del paese, dove vivevano e tessevano le suddette comunità.

La tradizionale ripartizione in “tappeti da campo profughi” e in “tappeti di manifattura”, utilizzata anche per connotare come “tappeti di manifattura” gli esemplari migliori tra i tappeti di guerra, trascura il fatto che nei campi pakistani o nei bazaar di Peshawar si sono riprodotte vere e proprie manifatture, a volte con l’intera (o quasi) maestranza rifugiatasi in blocco in Pakistan dopo l’inasprirsi del conflitto. Cioè quasi subito dopo l’occupazione sovietica e in qualche caso persino prima, se solo si consideri che Herat, città di residenza o comunque di referenza di molti mercanti beluchi afghani, ha subito un primo e devastante bombardamento già nel marzo 1979, come conseguenza di una rivolta culminata nel massacro di numerosi ufficiali dell’armata rossa (consiglieri militari e non ancora truppe d’occupazione).

Anche nel caso dei tappeti di guerra la ricostruzione della loro storia può protrarsi all’infinito e ogni affioramento anomalo rischia di compromettere quel poco di ordine metodologico che si è appena tracciato. Si crea un’ulteriore condizione paradossale: gli oggetti sono numerosi e recenti, tuttavia ne è a volte incerta la data e ne è oscura l’origine. Meglio determinabile l’area di produzione e soprattutto le etnie di appartenenza dei produttori. La guerra, la dislocazione di fasce enormi di popolazione, l’alterazione sostanziale dei meccanismi di produzione e di commercializzazione contribuiscono a frullare ogni dato precedente, consegnandoci oggetti sorprendenti provenienti da un mondo deflagrato.

Va ancora sottolineato che prima di essere “di guerra” i nostri piccoli manufatti sono “moderni”. Una tradizione modernista nel tappeto afghano sembrava esclusa a priori, partendo dal presupposto che non essendoci mai stata modernità fosse irreale cercare oggetti innovativi, tanto più in un linguaggio ultratradizionalista come quello tessile. Partendo da tali presupposti era conseguente che i Tappeti di guerra venissero interpretati come una cesura provocata soprattutto dagli sconvolgimenti bellici, ritenuti di portata tale da avere trasformato persino un linguaggio che si presumeva al riparo da ogni commercio con l’attualità. L’adagio meccanicista che recita “c’è la guerra e quindi adesso cominciamo a rappresentare le armi” è privo di fondamento per chiunque conosca i filtri storici, estetici e mercantili della visualità orientale e soprattutto del suo mondo tessile. Nei secoli recenti e nelle aree tradizionali del tappeto, una sequenza quasi incessante di guerre non ha mai prodotto “tappeti di guerra” che nell’Afghanistan degli ultimi decenni. Fossero pur state il prodotto di una committenza, è assai più probabile che la bomba o il fucile dei primi tappeti di guerra cominciassero la loro misteriosa storia quando non costituivano ancora una minaccia costante per chi li realizzava. Le armi, prima di diventare un oggetto del conflitto (il suo oggetto par excellance) sono un oggetto della modernità (l’oggetto moderno par excellence, soprattutto nei paesi in via di sviluppo). In alcuni esemplari assai vecchi le armi circondano infatti scene tutt’altro che belliche, come l’immagine che celebra la costruzione di una diga o il planisfero politico del mondo circondato dalle bandiere di quasi tutti i paesi. Ormai sono considerati “tappeti di guerra” anche quelli in cui non compaiono armi ma che rappresentano vedute contemporanee.

I Tappeti di Guerra non sono dunque un cortocircuito nel corpo di una tradizione inerte, ma lo sviluppo pur imprevedibile di una modernità che li precede e li suggerisce, o per meglio dire che li rende possibili dentro e oltre la guerra stessa.

La produzione continua massiccia per tutti gli anni ’80 e ’90. Persino l’ossessiva iconoclastia talebana tollererà la sua rappresentazione, e nei non rari gadget di propaganda filotalebana in vendita nei banchi di arruolamento della Frontiera di Nord-Ovest scintilleranno spade e scimitarre, ma saranno altrettanto scintillanti, contro un cielo immacolato o sopra le cupole blu dell’Hazrat Ali di Mazar, i più moderni caccia e tank che molto debbono all’iconografia dei tappeti di guerra. Dopo il 2001 si assiste a una proliferazione senza precedenti di tappeti di guerra di propaganda filoamericana, come quello con le due torri in fiamme. La qualità è sempre più scadente, ma in tempi recenti si assiste a una rarefatta ma significativa produzione di esemplari eccellenti.

 

 
I Tappeti Berberi e l'arredamento moderno Stampa E-mail

 

Il termine "tappeti tribali" o "tappeti nomadi", evoca immediatamente immagini di un Medio Oriente esotico, di un'Asia popolata da etnie ben caratterizzate.

In termini di progettazione dei disegni, quando si parla di "tappeti nomadi" si tende a pensare ad un complesso repertorio ornamentale di intricati motivi geometrici, espressi su una tavolozza di colori profondi, talvolta scuri.

Un esempio di tappeti che sfugge a questi preconcetti, e ne vedremo subito gli esempi, è rappresentato da quei manufatti realizzati dai popoli berberi della regione montagnosa dell'Atlante marocchino.

In termini puramente geografici, i tappeti marocchini non potrebbero essere classificati come Orientali o Mediorientali, che dir si voglia, in quanto realizzati a latitutidini ben più occidentali delle più importanti città europee. Eppure, le tribù convertite all'Islam già nel VII secolo, presero ispirazione, almeno inizialmente, proprio dalle produzioni di tappeti Mediorientali.

Da un punto di vista di colori e disegni usati poi, è ancora più difficile accomunare i tappeti berberi a quelli di stampo nomade mediorientale. Invece che la classica escursione cromatica (prevalentemente bruna) dei Turcomanni o dei Baluchi, alcuni tappeti marocchini sono pervicacemente vivaci, mentre altri presentano una fresca, neutrale composizione di colori, che alletta enormemente i più sofisticati designer contemporanei. Inoltre, al posto della ripetizione geometrica altamente organizzata e dettagliata dei manufatti dell'Asia centrale, le produzioni berbere sono caratterizzate da una enorme libertà del disegno, grande spontaneità, ed un gusto quasi "coraggioso" per l'espressività grafica.

Se ad esempio si guarda il Boujad a fianco, si può notare come la classica linearità di una scacchiera, disegno che si trova spesso anche ad esempio nei gabbeh o nei tappeti Kashkay dell'Iran meridionale, qui viene deformata, prima con una diversa colorazione, poi nella forma, fino a diventare, prima uno zig-zag, poi un insieme di linee orizzontali, che si riassemblano infine nella primaria teoria di quadrati. Il tutto, ad identificare il cielo, con sotto di se, le dune e il deserto del Marocco, qui reso dalla colorazione rossastra, che ricorda i colori del tramonto sulle montagne dell'Atlante.

Vi è insomma, qusi una prefigurazione di quella che poi diventerà negli anni '60, la "pop-art" statunitense.

Un'altra produzione altamente emblematica dei tappeti berberi, è quella che si riscontra nelle tribù nomadi di Beni Ouarain, che sembrano combinare il gusto per la linearità minimalista, con il simbolismo dell'arte grafica primitiva.

Se ad esempio guardiamo la foto sottostante, possiamo notare il disegno organizzato attorno all'idea di un "diamante", di per se molto lineare e simmetrico, ma qui realizzato con notevole libertà.

All'interno di esso, dei simboli, probabilmente marchi tribali, anch'essi posti senza alcuna simmetria rispetto al contesto generale.

E' naturale che un esemplare del genere suggerisca modalità di espressioni ataviche e remote. In alcuni esemplari simili, si riscontrano notevoli affinità con le migliori rafia delle etnie Kuba del Congo, ma allo stesso tempo, la sua tavolozza bicroma, rappresenta qualcosa di estremamente moderno.

Tutti questi tappeti ci ricordano che l'estetica delle popolazioni tribali, per definizione "primitive", mostrano modalità espressive che spesso convergono con i gusti e le sensibilità contemporanee. Qualunque manufatto berbero si adatta splendidamente all'interno di un arredamento moderno ed anzi, ne rappresenta la naturale evoluzione.

Con la loro geometria astratta ma lineare, completano infatti il minimalismo di molti mobili dal design contemporaneo. Anche i tappeti con colorazione neutra, costituiscono un ottimo fondo per gli arredi e i dipinti più colorati, così come quelli dai colori più vibranti si potrebbero integrare alla perfezione con i metalli e i cuoi dei mobili e delle sculture moderne. Da qualsiasi punto di vista, i tappeti nomadi del Marocco offrono un interessante ventaglio di possibilità e potenzialità per gli interni moderni.

 
I Tappeti a Uccelli dei Khamseh Stampa E-mail

 

I gusti e le preferenze dei collezionisti dei tappeti sono notevolmente cambiati nel corso di questo secolo, ed in particolare negli ultimi 10 anni. Uno dei segni più evidenti di tale cambiamento è stato il crescente interesse per i tappeti tribali, termine usato spesso, ma sul quale bisogna accordarsi.

Se infatti siamo tutti d'accordo sul fatto che la vita dei pastori nomadi, che si spostano continuamente con le loro tende è da considerarsi realmente tribale, è anche vero che non solo i tappeti annodati da questi popoli viene definito così, infatti un gran numero di tappeti che noi chiamiamo tribali sono annodati da popolazioni sedentarie in villaggi e/o cittadine.

Spesso, questi tessitori, hanno mantenuto un certo senso di appartenenza tribale, anche se non praticano più, a volte da generazioni, il nomadismo.

Ma allora ci si chiede: è la città che si appropria di un modello tribale o viceversa?

Le prospettive da cui guardare e studiare questo fenomeno sono due: la prima fa dipendere l'attribuzione a come vive e si comporta il tessitore; se è nomade, se è intriso della cultura tribale, allora il tappeto può essere considerato tribale. L'altra prospettiva invece, non parte dall'"operatore" che ha prodotto il manufatto, ma dalla tessitura in se, e cioè se ad esempio sono evidenti stilemi che hanno una simbologia tribale, se la tecnica è quella usata dai nomadi, anche se un tappeto è stato prodotto da popolazioni sedentarie, viene considerato tribale.

Data questa "apertura" nell'etichettare l'appartenenza tribale di un manufatto, il mercato oggi è stato contaminato da alcuni ibridi. Basti pensare che molti tappeti che vengono venduti come "tribali" hanno semplicemente un po' modificato disegni e modelli "urbani". A volte il decoro geometrico di un disegno che viene acquisito e semplificato o "tribalizzato", nel corso dei decenni tende a nascondere la sua prima fonte "urbana". E' evidente dunque, che essendo il mercato dei tappeti tribali "imbastardito" da un notevole numero di esemplari che affondano le loro radici nel contesto stilistico cittadino, quando ci si trova di fronte a tappeti scevri da questa contaminazione, data la rarità degli oggetti, si crea una vera e propria "corsa all'oro" che ha dato vita ad una nicchia di mercato molto fiorente e redditizia.

 

 

 

Tappeto Luri dell'ultimo quarto del XIX secolo e suo particolare, dove si evidenziano gli uccelli.

 

I "Bird Rugs" o tappeti ad uccelli dell'Iran meridionale, appartengono sicuramente a questa categoria. Essi non hanno precedenti nelle tessiture di città e sembra che le loro radici affondino nelle popolazioni indigene del luogo, con una storia che si perde nei secoli. A mio avviso, a prescindere che si tratti di tappeti annodati in villaggi o da tessitori nomadi, questa tipologia di tappeto va considerata davvero il prototipo del tappeto tribale. Il solo fatto di trovarsi di fronte ad una famiglia di disegni tribali che non sono riconducibili ad una sorgente esterna è molto raro.

Per tale motivo, I "Bird Rugs" destano l'interesse da parte di importanti musei, collezionisti e studenti di cultura tribale.

E' innanzitutto utile esaminare la tribù dalla quale ha origine la maggior parte di questi tappeti, la Confederazione di Khamseh (da pronunciare "Hahmseh" senza la K), uno dei più importanti gruppi tribali nel sud della Persia. Alcuni lettori già sapranno che Khamseh in arabo vuol dire 5 e che la Confederazione di Khamseh ha preso questo nome proprio dal fatto che rappresenta il raggruppamento di cinque tribù della Persia del sud.

Fondata negli anni '60 del XIX secolo, per contrastare il potere della vicina tribù Qashqa'i (o Kashkay), questa fu composta da arabi, alcune fazioni turche, tribù Luri che si erano stabilite da lungo tempo nella zona, piccoli gruppi di abitanti di villaggi persiani ed una mistura di altri gruppi che differivano per cultura e lingua. Fu sciolta poi intorno al 1950 e ne è rimasto ben poco, tranne i resti di una delle tribù più forti, quella dei Basseri.

I manufatti da loro realizzati, come le illustrazioni documentano in modo evidente, hanno un pedigree puro, e non sono solo tappeti tribali dagli stilemi incontaminati, ma rappresentano delle vere e proprie opere d'arte della tessitura, e per la loro equilibrata delicatezza cromatica, e per la qualità, estremamente fine, dell'annodatura.

 

 

Altri esempi di "Bird Rugs" annodati nel XIX secolo dalla Confederazione dei Khamseh

 

 

Nel libro "Tribal Rugs of Southern Persia" (Portland, 1981) ci si riferisce a questi tappeti, come ai "chicken rugs" "tappeti con le galline" dal termine "morgh" o "morghì" usato in Iran, e così si è fatto per tanti decenni, ma ultimamente si preferisce riferirsi a loro come ai "bird rugs" o "tappeti a uccelli" in base allo studio ed alle osservazioni in merito alla possibile origine dei disegni e modelli.

In effetti, si può notare un tema abbastanza costante nell'arte asiatica antica, che spesso raffigura coppie di animali o di uccelli una di fronte all'altra. Queste coppie vengono in genere "separate" da un albero, un cespuglio, da una forma umana o da un oggetto (basti pensare al prototipo del disegno zillie sultan).

Esiste una stretta correlazione tra questi tappeti Khamseh e alcune immagini di bronzi del VI°-IX° secolo ritrovati nelle aree abitate dalle tribù Luri, che non sono mai state incluse nelle principali rotte commerciali che passavano dall'antica Persia, e quindi hanno avuto modo di preservare le tradizioni locali in tutto l'arco dei mille anni passati da quel periodo fino al XX° secolo, che pure per molti popoli asiatici sono stati un periodo estremamente turbolento.

 

 

 

 

Sopra: una stele Assira con il tema eroico dell'uomo affrontato da coppie di animali o uccelli predatori.

A sinistra: Bronzo del Luristan del VII secolo, con teste di uccelli; 

 

Questi esempi di arte antica Mediorientali, ci mostrano la vasta gamma di arti nelle quali riscontriamo ciò che abbiamo notato nei tappeti a uccelli e dimostrano, data la loro epoca, quanto ancestrali e radicati nelle tribù Luri fossero tali simbologie, ma è altrettanto illuminante constatare come tali decori si siano fusi in quelli di una confederazione dominata da etnie arabe e turche, pur riuscendo ad uscirne vincitori.

Tale processo è molto simile a quello accaduto per i simboli delle tribù Kashkay, che insieme ai Luri, possono essere considerate le progenitrici dei tappeti tribali, poi riadattati dalle varie culture cittadine.

 

 

 
Il Tappeto Turcomanno Occidentale Stampa E-mail

 

(fonte tappetorientale.blogspot.com)

 

Nella storia dei tappeti d'Oriente il territorio del Turkestan Ocidentale riveste un'importanza eccezionale.

Furono infatti le genti locali, tantissimi secoli or sono, a iniziare ad annodare i primi manufatti destinati a costituire i principali utensili nella vita semplice e spartana dei nomadi. La produzione dei tappeti, molto diffusa fino al XIX secolo ha costituito il principale aspetto unificante nelle usanze delle numerose tribù locali, che un'antica tradizione indica come i discendenti dalla bellicosa popolazione altaica Oguz.

Chiamati in occidente fino a pochi decenni fa con il nome generalizzante di Bokhara (nome di una città di raccolta) questi tappeti sono caratterizzati dall'uso dello stesso colore continuamente ripetuto e mai discosto dal rosso, bruno e nero, la loro decorazione a linee dritte e spigolose, contorte e sofferte, parlano di solitudine, di fatica, di mesi di isolamento al freddo invernale o sotto il sole delle steppe, di senso racchiuso di difesa, di incomunicabilità scelta, forse come fedeltà alla propria tribù.

Come si spiegherebbe altrimenti la relativa povertà di influssi esterni, la testardaggine orgogliosa con cui da centinaia di anni i tappeti turcomanni restano fermi ad uno schema fisso, ripetendo sempre gli stessi disegni e le stesse tinte?

I decori dei tappeti turkmeni (turcomanni) occidentali sono comunemente detti gul e vengono distribuiti su ordinate file, spesso alternati a motivi geometrici minori dalla forma variabile.

E' spesso dalla differente forma dei gul che si riescono a riconoscere produzioni di talune tribù rispetto ad altre che agli occhi dei principianti o profani possono invece risultare uguali. Le testate di questi manufatti (spesso molto ampie) presentano sovente decori a sumak o kilim con decori geometrici. I nodi impiegati possono essere asimmetrici come simmetrici mentre il materiale utilizzato è quasi sempre lana su lana, con rari casi di utilizzo di seta o cotone mercerizzato.

Accanto alla produzione di tappeti si realizza una vasta serie di oggetti/utensili utili ad arredare la tenda o yurta e che destano tra gli etnografi un enorme interesse culturale. Oggi si sta perdendo la tradizione dell'annodatura, poichè il contatto con popolazioni straniere ha quasi completamente eliminato le caratteristiche migliori dell'artigianato locale, a causa dell'utilizzo di scadenti colori all'anilina e di motivi decorativi importati dalla Persia.

Alcune tipolgie di tappeti turcomanni occidentali sono i Tekkè, gli Ersari, i Salor, i Chodor, i Saryk e gli Yomut (o Yamoud)


 
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