I Tappeti di guerra Afghani Stampa

 

per gentile concessione di tappetidiguerra.com

Ben noti anche in occidente, esaminati in articoli divulgativi e saggi specialistici che ormai formano una vasta bibliografia, i tappeti di guerra più interessanti sono rari nei negozi e hanno invece goduto di notevole fortuna in musei e gallerie d’arte contemporanea, grazie all’originalità e alla tensione innovativa delle rappresentazioni e del linguaggio, come fossero opere d’arte capaci di toccare le corde più esigenti della visualità contemporanea. I più pregiati sono da tempo oggetti da collezione e fanno parte di raccolte pubbliche e private.

Ma la loro origine è in parte ancora misteriosa e, per alcuni esperti, gli esemplari più vecchi precederebbero persino la sequenza interminabile delle guerre afgane recenti, iniziata con l’intervento sovietico (1979-1988) e la resistenza dei mujihadin, proseguita con gli scontri tra fazioni di mujihadin (1992-1995), con la costituzione dell’Emirato talebano (1996-2001) e in corso sino ad oggi dopo la caduta dei talebani, l’intervento americano e la resistenza di nuove compagini di mujihadin (post 2001): “Sono stati necessari altri ritrovamenti per risalire da quel tappeto di guerra che mi aveva sorpreso nella Peshawar della metà degli ’80, ad una vera e propria tradizione modernista che affonda nei decenni precedenti e di cui di tanto in tanto affiorano esemplari sorprendenti come un tappeto con le Geishe e gli aeroplani. Nonostante ben sapessi che nemmeno le più audaci rivoluzioni formali dell’avanguardia fossero nate dal nulla per semplice cortocircuito creativo o sotto la meccanica pressione di eventi epocali, anch’io ero arrivato a ritenere che i tappeti di guerra, confortati in questo dal disastro in corso, fossero il portato di un atto collettivo la cui origine, pur recente (allora recentissima), era già annegata nel macello in opera. Ci volle più tempo e soprattutto la scoperta dei “Tappeti con il mondo” eppoi di altri manufatti non meno sorprendenti per convincermi che i Tappeti di guerra erano soltanto l’atto più recente, e in qualche modo finanche “decadente”, di una produzione modernista che li precedeva di molti anni. Le armi moderne, avevo notato, figuravano in molti esemplari di soggetto vario che plausibilmente precedevano l’occupazione sovietica e lo scoppio della guerra” (Enrico Mascelloni, L’incubo del modernismo, di prossima pubblicazione per i tipi SKIRA ed.).

Prima della guerra, anche nella produzione tessile e nella sua stessa organizzazione vigeva il ricorrente conflitto tra tradizione e cambiamento. Basti pensare che a pochi anni dallo spiazzamento nei campi profughi che segue l’invasione sovietica, erano ancora attive vere e proprie gilde medioevali, come quella di Tash Kurgan documentata negli anni ’60 da due studiosi svizzeri (cfr. Pierre e Micheline Centlivres, Un bazar d’Asie Centrale – Forme et Organization du Bazar de Tash Kurgan).

Ma qualche anno prima della guerra guadagnava al contempo spazio “un processo che conduceva prima alla scomparsa di un manufatto tradizionale, eppoi alla ricomparsa di un tappeto completamente diverso e di qualità più bassa. Il processo sembra avere persino una data d’inizio, il 1971, quando il primo “beluchi type” appare nei bazar, vidimando un cambiamento evidentemente in corso da tempo” (cfr. R.D. Parsons The carpets of Afghanistan).

I beluchi, stanziati nel sud ovest dell’Afghanistan (oltrechè in Pakistan e Iran), sono ritenuti i primi e principali realizzatori di tappeti di guerra. Con “beluchi type” s’intende una produzione di tappeti in stile beluchi ma realizzati da altre etnie come i Taimani, gli Aymaq e persino i Pashtuni trasferitisi da un secolo nelle regioni di nord-ovest. La maggior parte dei tappeti di guerra proviene infatti dalle aree occidentali del paese, dove vivevano e tessevano le suddette comunità.

La tradizionale ripartizione in “tappeti da campo profughi” e in “tappeti di manifattura”, utilizzata anche per connotare come “tappeti di manifattura” gli esemplari migliori tra i tappeti di guerra, trascura il fatto che nei campi pakistani o nei bazaar di Peshawar si sono riprodotte vere e proprie manifatture, a volte con l’intera (o quasi) maestranza rifugiatasi in blocco in Pakistan dopo l’inasprirsi del conflitto. Cioè quasi subito dopo l’occupazione sovietica e in qualche caso persino prima, se solo si consideri che Herat, città di residenza o comunque di referenza di molti mercanti beluchi afghani, ha subito un primo e devastante bombardamento già nel marzo 1979, come conseguenza di una rivolta culminata nel massacro di numerosi ufficiali dell’armata rossa (consiglieri militari e non ancora truppe d’occupazione).

Anche nel caso dei tappeti di guerra la ricostruzione della loro storia può protrarsi all’infinito e ogni affioramento anomalo rischia di compromettere quel poco di ordine metodologico che si è appena tracciato. Si crea un’ulteriore condizione paradossale: gli oggetti sono numerosi e recenti, tuttavia ne è a volte incerta la data e ne è oscura l’origine. Meglio determinabile l’area di produzione e soprattutto le etnie di appartenenza dei produttori. La guerra, la dislocazione di fasce enormi di popolazione, l’alterazione sostanziale dei meccanismi di produzione e di commercializzazione contribuiscono a frullare ogni dato precedente, consegnandoci oggetti sorprendenti provenienti da un mondo deflagrato.

Va ancora sottolineato che prima di essere “di guerra” i nostri piccoli manufatti sono “moderni”. Una tradizione modernista nel tappeto afghano sembrava esclusa a priori, partendo dal presupposto che non essendoci mai stata modernità fosse irreale cercare oggetti innovativi, tanto più in un linguaggio ultratradizionalista come quello tessile. Partendo da tali presupposti era conseguente che i Tappeti di guerra venissero interpretati come una cesura provocata soprattutto dagli sconvolgimenti bellici, ritenuti di portata tale da avere trasformato persino un linguaggio che si presumeva al riparo da ogni commercio con l’attualità. L’adagio meccanicista che recita “c’è la guerra e quindi adesso cominciamo a rappresentare le armi” è privo di fondamento per chiunque conosca i filtri storici, estetici e mercantili della visualità orientale e soprattutto del suo mondo tessile. Nei secoli recenti e nelle aree tradizionali del tappeto, una sequenza quasi incessante di guerre non ha mai prodotto “tappeti di guerra” che nell’Afghanistan degli ultimi decenni. Fossero pur state il prodotto di una committenza, è assai più probabile che la bomba o il fucile dei primi tappeti di guerra cominciassero la loro misteriosa storia quando non costituivano ancora una minaccia costante per chi li realizzava. Le armi, prima di diventare un oggetto del conflitto (il suo oggetto par excellance) sono un oggetto della modernità (l’oggetto moderno par excellence, soprattutto nei paesi in via di sviluppo). In alcuni esemplari assai vecchi le armi circondano infatti scene tutt’altro che belliche, come l’immagine che celebra la costruzione di una diga o il planisfero politico del mondo circondato dalle bandiere di quasi tutti i paesi. Ormai sono considerati “tappeti di guerra” anche quelli in cui non compaiono armi ma che rappresentano vedute contemporanee.

I Tappeti di Guerra non sono dunque un cortocircuito nel corpo di una tradizione inerte, ma lo sviluppo pur imprevedibile di una modernità che li precede e li suggerisce, o per meglio dire che li rende possibili dentro e oltre la guerra stessa.

La produzione continua massiccia per tutti gli anni ’80 e ’90. Persino l’ossessiva iconoclastia talebana tollererà la sua rappresentazione, e nei non rari gadget di propaganda filotalebana in vendita nei banchi di arruolamento della Frontiera di Nord-Ovest scintilleranno spade e scimitarre, ma saranno altrettanto scintillanti, contro un cielo immacolato o sopra le cupole blu dell’Hazrat Ali di Mazar, i più moderni caccia e tank che molto debbono all’iconografia dei tappeti di guerra. Dopo il 2001 si assiste a una proliferazione senza precedenti di tappeti di guerra di propaganda filoamericana, come quello con le due torri in fiamme. La qualità è sempre più scadente, ma in tempi recenti si assiste a una rarefatta ma significativa produzione di esemplari eccellenti.